Separazione, obbligo di fedeltà: l’addebito non scatta in automatico (Cass. 27955/22)

La relazione extraconiugale deve essere la causa esclusiva della rottura tra moglie e marito e non la conseguenza di un rapporto già in crisi per altri motivi

 IL PRINCIPIO ENUNCIATO DALLA CORTE

In tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, sempreché non si constati, attraverso un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.

L’ORDINANZA

Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 23/09/2022, n. 27955

(Presidente Valitutti, Rel. Fidanzia)

(omissis)

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Perugia, con sentenza n. 573/2018, depositata in data 8.08.2018, in accoglimento dell’appello proposto da F.S. avverso la sentenza n. 1592/2017 del 16.10.2017 del Tribunale di Perugia, ha accolto la domanda di addebito della separazione formulata da F.S. nei confronti di T.G.. Il giudice di secondo grado ha ritenuto, alla luce delle deposizioni dei testi, non solo de relato, che la cessazione del rapporto di coniugio trova un suo antecedente causale nella ripetuta violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale da parte del marito, il quale aveva avuto più relazioni extraconiugali. Ne consegue che il venir meno dell’affectio coniugalis da parte della F. non era stata determinata dalla situazione di separazione di fatto dei coniugi conseguente alla lunga permanenza all’estero del marito, bensì proprio dai comportamenti posti in essere dal T.. Infine, la Corte d’Appello ha rigettato l’istanza del T. di revoca dell’assegno di mantenimento goduto dal figlio maggiorenne M., non essendo emerso dagli atti prodotti in causa che quest’ultimo fosse economicamente autosufficiente.

Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione T.G. affidandolo a tre motivi.

F.S. ha resistito in giudizio con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 143 c.c. in punto di asserita violazione dell’obbligo di coabitazione tra i coniugi e abbandono del tetto coniugale nonchè l’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in punto di fatti oggetto delle risultanze istruttorie.

Deduce il ricorrente che la Corte d’Appello di Perugia aveva inspiegabilmente ritenuto che lo stesso avesse abbandonato il tetto coniugale senza tener conto del fatto che aveva sempre stabilmente lavorato all’estero, e, soprattutto, in Germania (si trattava di vero e proprio trasferimento e non di semplici temporanee trasferte lavorative), facendo ritorno presso l’abitazione familiare solo in occasione delle festività e delle vacanze estive, per un periodo non superiore a 30/40 giorni all’anno. Inoltre, la stessa Corte d’Appello aveva dato atto che il ricorrente, aveva continuato ad occuparsi della propria famiglia anche dopo la crisi familiare, versando, sua sponte, una somma di euro 1000,00, di poco inferiore a quella poi stabilita dal Tribunale.

La Corte d’Appello aveva, invece, limitato il proprio giudizio esclusivamente alla materiale assenza del T. dall’abitazione familiare.

2. Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente non ha colto la ratio decidendi della decisione impugnata, atteso che la Corte d’Appello non ha affatto fondato la declaratoria di addebito della separazione al marito sulla violazione dell’obbligo di coabitazione, ma sulla ripetuta violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale, avendo accertato che il T. aveva avuto una pluralità di relazioni extraconiugali. Inoltre, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, il giudice d’appello, come sopra già evidenziato nella parte narrativa, ha pienamente considerato l’aspetto della lunga permanenza all’estero del marito per motivi lavorativi, ritenendo, con una adeguata motivazione immune da vizi logici, che la causa della crisi coniugale, ed il venir meno dell’affectio coniugalis, non fosse stata dovuta alla perdurante lontananza del marito dall’abitazione coniugale, ma dai ripetuti comportamenti di infedeltà del marito.

Proprio tale considerazione rende inammissibile il dedotto omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Non vi è dubbio che il ricorrente, con l’apparente doglianza della violazione, da parte del giudice d’appello, dell’art. 360 comma 1 nn. 3 e 5 c.p.c., svolga, in realtà, censure di merito, intendendo prospettare, inammissibilmente, una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata dalla Corte perugina.

3. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 143, 151 comma 2 e 2697 c.c. nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’erroneo addebito della separazione per violazione dell’obbligo di fedeltà e mancanza del nesso di causalità tra infedeltà e insorgenza della crisi coniugale. E’ stato, altresì, dedotto l’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in punto di fatti oggetto delle risultanze istruttorie.

Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello ha fondato la propria decisione sulle asserite infedeltà coniugali del marito, basandosi su valutazioni prive di ancoraggio oggettivo ed ha escluso apoditticamente che i fatti allegati dal marito come causa della crisi coniugale, pur confermati e non negati, fossero circostanze inequivoche della pregressa situazione di intollerabilità della convivenza.

Ad avviso del ricorrente, non esisterebbe una sola prova certa che il fatto meramente allegato dalla moglie in ordine ad un episodio di infedeltà sià in realtà avvenuto (essendoci solo vaghi sospetti) e che fosse anteriore alla crisi coniugale.

In ogni caso, difettavano, nel caso di specie, gli ulteriori connotati richiesti per l’addebito, difettando l’offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge.

4. Il motivo è inammissibile.

Va preliminarmente osservato che questa Corte (vedi Cass. n. 16859/2015; vedi anche Cass. n. 26270/2013, Cass. n. 25618/2007) ha già enunciato il principio di diritto – cui anche questo Collegio intende dare continuità – secondo cui, in tema di separazione tra coniugi, l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, semprechè non si constati, attraverso un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale.

La Corte d’Appello ha fatto buon uso di tale principio, avendo (come già anticipato), in primo luogo, accertato, alla luce di una pluralità di deposizioni testimoniali, la ripetuta violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale, perpetrata dal ricorrente, e la pluralità di relazioni extraconiugali da questi intrattenute, e, inoltre, che la infedeltà coniugale non era stata la conseguenza di una crisi matrimoniale già irrimediabilmente in atto, ma ne era stata la causa.

Nè occorre accertare, ai fini della declaratoria di addebito – come sostiene il ricorrente – che il comportamento del coniuge infedele abbia arrecato offesa alla dignità e all’onore della moglie.

In proposito, è pur che questa Corte (vedi più recentemente Cass. n. 21657/2017) ha enunciato il principio di diritto secondo cui “La relazione di un coniuge con estranei rende addebitabile la separazione ai sensi dell’art. 151 c. c. quando, in considerazione degli aspetti esteriori con cui è coltivata e dell’ambiente in cui i coniugi vivono, dia luogo a plausibili sospetti di infedeltà e quindi, anche se non si sostanzi in un adulterio, comporti offesa alla dignità e all’onore dell’altro coniuge”. Tuttavia, tale affermazione è stata fatta da questa Corte in un contesto fattuale in cui, pur non essendo stato accertato l’adulterio, il comportamento di un coniuge aveva comunque dato luogo a plausibili sospetti di fedeltà (nel caso esaminato da questa Corte, aveva trascorso la notte in una camera d’albergo con una collega).

E’ evidente che ove, come nel caso di specie, l’adulterio sia stato già accertato, già questo evento è sufficiente ai fini dell’attribuzione dell’addebito.

Infine, il ricorrente, anche nel secondo motivo, non ha fatto altro che svolgere censure di merito, sollecitando una diversa valutazione del materiale probatorio rispetto a quella operata dalla Corte d’Appello, e ritenendo, inammissibilmente, che non fosse stata raggiunta la prova della ripetuta violazione dell’obbligo di fedeltà da parte sua e che comunque non vi fosse prova che la eventuale infedeltà coniugale avesse determinato l’intollerabilità della convivenza.

In proposito, questa Corte ha espressamente enunciato il principio di diritto secondo cui, in tema di separazione personale dei coniugi, l’indagine sulla responsabilità di uno o di entrambi i coniugi nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza è riservata al giudice del merito ed è, quindi, censurabile in sede di legittimità nei limiti previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 2960/2017). Anche su quest’ultimo profilo, la Corte d’Appello ha dimostrato di aver fatto buon uso dei principi enunciati da questa Corte, evidenziando con argomentazioni immuni da vizi logici che la dedotta (dal ricorrente) freddezza della moglie era stata la conseguenza e non la causa dell’infedeltà coniugale.

5. Con il terzo motivo è stato dedotto l’omesso esame di fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in merito alla domanda di revoca dell’assegno di mantenimento al figlio economicamente autosufficiente.

Lamenta il ricorrente che la Corte d’appello ha completamente omesso l’esame circa la mutata condizione economica relativa al figlio maggiorenne M., non considerando che dalla documentazione in atti risultava una realtà esattamente contraria ed opposta a tale decisione.

6. Il motivo è inammissibile.

Come già evidenziato nella parte narrativa, la Corte d’Appello ha rigettato la domanda di revoca dell’assegno di mantenimento goduto dal figlio maggiorenne del ricorrente, sul rilievo che non era emersa prova che lo stesso svolgesse attività retribuita con lavoro a tempo determinato. Dunque, il fatto (ad avviso del ricorrente) asseritamente “omesso” dell’autosufficienza economica del figlio maggiorenne è stato, invece, pienamente considerato e confutato dal giudice d’appello, con la conseguenza che, anche sotto tale profilo, le doglianze del ricorrente si appalesano di mero merito.

7. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 92 c.p.c. in merito alla condanna, da parte della Corte d’Appello, dell’odierno ricorrente al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio di merito nonostante fossero state rigettate sia le domande di risarcimento del danno che quelle di rideterminazione dell’assegno di mantenimento proposte dalla moglie appellante. E’ stata, altresì, dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli D.M. n. 55 DEL 2014 artt. 4 e 5, sul rilievo che la Corte d’appello avrebbe liquidato in misura sproporzionata le spese di lite rispetto al valore della causa, atteso che, anche applicando lo scaglione da 52.000,00 a 260.000,00 Euro, l’importo liquidato (dalla Corte d’Appello in Euro 6.000,00 per compensi) non avrebbe dovuto essere superiore ad Euro 4655,00 (Euro 2.835,00 per la fase di studio ed Euro 1.820,00 per la fase introduttiva).

8. Il motivo è infondato.

Va preliminarmente osservato che questa Corte (vedi Cass. n. 21069/2016) ha enunciato il principio di diritto secondo cui, l’attore, in caso di parziale accoglimento dell’unica domanda proposta, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 69 del 2009 ed applicabile “ratione temporis”, non può mai essere condannato, neppure in parte, al pagamento delle spese processuali, le quali, ove non siano state interamente poste a carico del convenuto, possono solo essere, totalmente o parzialmente, compensate tra le parti. Dunque, in caso di parziale accoglimento delle domande, l’unica scelta discrezionale che il giudice non può adottare è quella di condannare l’attore al pagamento delle spese di lite. Per il resto, può o accollare interamente le spese al convenuto o disporre la compensazione parziale o totale delle spese: non vi è dubbio che la Corte d’Appello, nel condannare il ricorrente al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio di merito, abbia fatto buon uso del principio sopra illustrato.

Quanto alla doglianza relativa alla concreta liquidazione delle spese di lite da parte della Corte d’Appello, va preliminarmente osservato, da un lato, che secondo il D.M. n. 55 DEL 2014, ribadito dal più recente D.M. n. 8 marzo 2018 n. 37, i valori medi di cui al precedente decreto possono essere aumentati di regola sino all’80 per cento, e, dall’altro, che, tenuto conto della pluralità di domande esaminate dalla Corte d’Appello, è stata corretta la scelta (non contestata nemmeno dal ricorrente) dello scaglione tariffario da Euro 52.000,00 a 260.000,00.

Ne consegue che aumentando sino all’80% l’importo medio di Euro 4.655,00, previsto per lo scaglione di riferimento per l’attività di studio e per la fase introduttiva svolta dal legale della odierna controricorrente, si ottiene un compenso ampiamente nei limiti di quanto liquidato dalla Corte d’Appello.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2022

Hai bisogno di aiuto? Sei nel posto giusto!

Tempo: 1 minuto

    Iscriviti alla Newsletter

    Condividi l'articolo su:
    Torna in alto